Il destino dei nomi

Il destino dei nomi

Il pieghevole era stato dimenticato tra le pagine del libro che aveva preso in prestito. Forse erano stati i libri a salvare Vittoria nei momenti più difficili ed anche ora non poteva rinunciare al piacere di avere un libro tra le mani da sfogliare, soprattutto alla sera, quando aveva finito di correre da un appuntamento all’altro, per inseguire il suo lavoro. C’era stato un tempo migliore, quando insegnava in una scuola superiore ed aveva creduto di poter vivere con la sua laurea, in letteratura russa. Aveva sperato di potercela fare, ci racconta, fino a quando si era dovuta arrendere all’evidenza che quello che guadagnava non bastava per tirare avanti, tantomeno per pensare al futuro, soprattutto per i tre figli, che erano rimasti con lei dopo il divorzio.
I bambini avevano dodici, nove e quattro anni, quando era stata costretta a lasciarli con la nonna, in Ucraina, e a partire per giocarsi la sua unica possibilità, come tante altre. Quello era stato il momento più duro, non poteva sapere se i bambini l’avrebbero raggiunta, ma non aveva altra scelta.

Nel pomeriggio era riuscita a passare in biblioteca ed alla sera, sfogliando il libro, aveva ritrovato il pieghevole, che aveva attirato la sua attenzione per il fumetto di una lampadina accesa che annunciava “Una pazza idea”. L’idea era quella di ospitare in famiglia una persona con disagio psichico, un matto, se aveva capito bene. C’era anche scritto che le persone interessate avrebbero dovuto avere solo buona volontà, pazienza e una stanza in più per l’ospite. Mentre leggeva la sua perplessità aumentava, quando l’attenzione si era fermata su questa frase: è previsto un contributo economico.

I ragazzi da qualche anno stavano con lei, il grande aveva trovato un lavoro, ma i due piccoli andavano a scuola ed erano troppi i no che era costretta a dire perché le mancavano i soldi. L’idea del volantino non sembrava più così strana, anzi le faceva ricordare che quando era una ragazzina, in paese, andava a casa delle persone anziane per mettere in ordine, fare la spesa, o anche solo per tenere compagnia, come le aveva insegnato sua nonna. Era normale allora, mentre i suoi figli stavano crescendo in un modo che non le piaceva, senza avere nessuna occasione per imparare ad aiutare gli altri. C’era un numero di telefono, forse avrebbe chiamato.

Le diamo un appuntamento e ci incontriamo. Vittoria è una signora attenta, che vuole capire bene cosa le stiamo proponendo e darci le informazioni giuste. Non nasconde le sue difficoltà economiche, ma ci parla anche della nostalgia per il suo paese dove la solidarietà faceva parte della vita. Sta facendo volontariato in ortopedia, dove ci sono persone che non possono muoversi e non hanno nessuno che le assiste, ma questo non le basta. Le chiediamo se i ragazzi sono d’accordo con il progetto. Ci risponde che i figli sono stati informati di questa iniziativa e la loro opinione è importante, ma aggiunge che cerca di mantenere un po’ di autonomia nelle sue scelte. Tutti i giorni fa meditazione, almeno un’ora, e questo l’aiuta molto.

Esattamente un mese dopo, alle quattro del mattino, il terremoto fa crollare vecchie costruzioni e nuovi capannoni, lesiona abitazioni e cambia il corso dei progetti. Anche Anna, come tanti altri nella zona di Sorbara, dorme in giardino sotto una tenda, insieme alla madre e non può pensare, in quelle condizioni, di ospitare un’altra persona. Le dispiace molto, ci comunica, perché con Wanda si era trovata bene ed il prossimo fine settimana l’avrebbero passato insieme, ma ora non è più possibile, non sa neppure quando potrà rientrare in casa.

Wanda ha una malattia che si chiama Solitudine, che è dura e fredda, come una lastra di marmo che la tiene separata dal mondo, ci racconta. Avrebbe tante cose da fare per mettere a posto la sua casa che sta cadendo a pezzi: la lavatrice funziona quando le pare, la televisione è da riprogrammare e le pareti avrebbero bisogno di essere imbiancate. Ma non appena entra e si chiude la porta alle spalle, Wanda sbatte contro il marmo lucido di Solitudine, nel quale si specchiano le sue paure. Quando incontra la paura lei deve scappare nell’unico posto dove il suo problema trova un po’ di sollievo, il centro di salute mentale. E’ obbligata a farlo perché quell’Altra, che le fa paura, si è sistemata nella sua casa, se ne sta lì tranquilla aspettando che rientri. Forse pensa di averne il diritto, perché è stata Wanda, a sceglierla come compagna quando era molto più giovane, ma non le permetteva di comandare, come fa ora. Gli altri, ma soprattutto la sorella, le avevano detto che si stava comportando come un’egoista, che non le importava niente delle regole, che il divorzio l’aveva voluto lei. Le rinfacciavano anche di essersi licenziata dal lavoro che era sicuro e senza problemi, ma lei non sopportava più di stare davanti al computer per ore e ore. Nanda, la sorella maggiore di Wanda sosteneva che i suoi guai se li era cercati e, da quando aveva incominciato a stare male, se ne stava alla larga. Ci mancava solo lo psichiatra, nella loro famiglia.

Non erano mai andate molto d’accordo, riconosce Wanda, ma una volta almeno riuscivano a parlarsi, quando veniva a pranzo da loro. Lei abitava con il padre, che con la sua malattia non era più uscito di casa.
Era stato il padre che aveva avuto l’idea di dare alle sue bambine dei nomi quasi uguali, perché aveva la passione del cinema e a quei tempi erano in voga non ricorda più quali attrici che si chiamavano una Wanda e l’altra Nanda. Ed era una cosa imbarazzante chiamarsi più o meno allo stesso modo, perché loro crescendo erano diventate sempre più diverse, e tanto lei era fatta a suo modo e niente le andava mai per il verso giusto, quanto la sorella era giudiziosa, ed ogni cosa era sistemata come si deve, un bravo marito, una figlia, un lavoro, un benessere tranquillo. Doveva riconoscere che anche a Nanda era successa una disgrazia grossa, quando le era morto il marito ancora giovane, ma, anche in quella situazione, la sorella aveva retto bene, mentre lei, Wanda, era stata così male che da allora erano incominciati i suoi ricoveri in psichiatria. Wanda adesso è preoccupata soprattutto perché non riesce a liberarsi di Solitudine che da alcuni mesi la costringe a stare in clinica, mentre la sua casa, la stessa che abitava con il padre, è occupata dalla sua amica invisibile. E’ per questo che l’idea di trasferirsi a casa di Anna, a Sorbara, per lasciare campo vinto alla compagna, non la convinceva del tutto, anche se le aveva fatto bene uscire con Anna, si era comprata dei vestiti nuovi ed avevano fatto una scappata a casa, che però le aveva messo addosso una grande tristezza, come sempre, con quelle ante dell’armadio staccate.

Non proprio come sempre, riflette ora, perché non aveva sentito il respiro freddo, ma solo una malinconia piena di affetto e di rimpianto. Il terremoto cambia sempre qualcosa, a volte le prospettive, se non gli assetti. La casa di Wanda aveva resistito benissimo alle scosse, che avevano fatto saltare la convivenza con Anna, ma ora sembrava che ci fosse una soluzione del tutto diversa.
Il progetto era stato capovolto, sarebbe stata Vittoria, la signora ucraina, a spostarsi nella casa di Wanda per aiutarla ad aggiustare, tinteggiare, sostituire, cucinare, aprire le finestre e riabitare le stanze. Wanda sarebbe tornata in clinica, alla sera, fino a che la casa non fosse stata pronta per accoglierla.

Mentre le due donne lavorano per rimettere a posto la casa, sembra che Solitudine rimanga nascosta in qualche angolo, perché non sopporta le chiacchiere, i colpi di martello, l’odore della pittura, le finestre aperte e le luci accese. Avrà tutto il tempo per rifarsi viva, quando Wanda ritornerà ad abitare lì, però qualcosa sta cambiando.
La vecchia auto è stata eliminata ed è costata più per la rottamazione che per la manutenzione che non si faceva da anni. Nanda, la sorella dal diverso destino e dal nome quasi uguale, si è rifatta viva, da quando Wanda sta meglio, e insieme sono andate a comprare una lavatrice nuova, perché quell’altra continuava a rompersi.
Mentre la terra non smette di tremare, la casa resiste ed i lavori vengono terminati.

Wanda lascia la clinica, dopo più di sette mesi, all’inizio di un agosto caldo, per tentare di riprendere le abitudini della vita, con cautela, come se fosse convalescente. Al mattino ci sono il profumo del caffè e le faccende di casa; nel pomeriggio arriva Vittoria e si preparano una merenda, escono per una passeggiata, fanno la spesa, ma soprattutto parlano, come due amiche. A volte è lei che parla dei suoi problemi, dice Vittoria, come del fatto che credeva di poter contare sul figlio grande, che invece deve sposarsi, ha solo ventidue anni. Wanda l’ascolta, la consiglia, insomma si danno una mano.

Verso sera però, quando Vittoria se ne va, c’è un momento vuoto prima della notte, che Wanda aspetta con timore. Quelle sono le ore più pericolose, perché la Compagna di sempre si rifà viva, meno arrogante, deve riconoscerlo, ma solo perché ha cambiato tattica. La guarda con compassione e le ripete sempre la stessa cosa, che le altre persone non sono sole come lei, hanno qualcuno che le ama, basta guardarsi intorno, anche Vittoria ha i suoi figli, per non parlare della sorella che ha avuto sempre tutto quello che a lei è mancato. L’amica Solitudine forse ha ragione, è convincente, sente freddo ed allora Wanda telefona a Carla, quella dello IESA, per farsi scuotere dalla malìa che la sta riprendendo. Carla c’è sempre per lei, prima ascolta e poi inizia a strapazzarla nel suo modo ruvido di essere affettuosa, dice di conoscere un sacco di persone sole, che non stanno sempre a lamentarsi, anzi, forse non hanno neppure qualcuno da chiamare al telefono, come fa lei, e adesso basta di dirle che non ha nessuno, che non le sembra di essere proprio nessuno. Wanda non si offende, anzi le dà ragione, le scappa da ridere, quando parla in dialetto, come faceva suo padre, e le dice… àscoulta patachèina vut tur la cùrira e gnir qué ad aiutérum in dal zardén?

A volte invece, sempre in quei momenti che all’improvviso si vuotano, chiama la sua infermiera e le racconta come stanno andando le cose, non molto bene, le dice, ma nemmeno così male come

prima.Wanda ha ripreso a dipingere, sta provando con l’acquerello, al centro diurno, dove c’è una maestra che le insegna e poi frequenta il gruppo di Antonio, uno che ce l’ha fatta, è guarito dalla malattia ed ora aiuta quelli che ancora sono nella trappola, lui sa quello che stanno passando. L’altro giorno anche la sua dott.ssa è andata a prendere un caffè a casa sua, insieme all’infermiera, e non la finiva più di farle i complimenti per come aveva sistemato la casa, proprio carina, ha detto, si vede che sei un’ artista.

La voce di Solitudine non è scomparsa, ma non è più così convincente come prima, piuttosto è noiosa perché dice sempre le stesse cose.

Nanda, mentre si prepara per uscire, pensa che sembra ieri che il padre le ha lasciate, anche se ormai sono trascorsi quasi cinque anni, non le pareva che fosse passato tanto tempo. Ma chissà cosa gli era venuto in mente di chiamarle così, quasi con lo stesso nome, Nanda e Wanda, e dire che sono sempre state così diverse, per non parlare di quel periodo in cui la sorella faceva delle cose veramente molto strane.

Deve affrettarsi, è in ritardo, ha promesso a Wanda di passare a prenderla, devono andare in centro a fare delle spese, insieme.